sabato 6 dicembre 2008

La ricerca del Dio Penn

La ricerca del Dio Penn
Le divinità montane - Immagini di pietra che risalgono a 3000 anni fa - Il «cerchio di
Annibale», un cromlech di circa 4000 anni - La scomparsa degli antichi dèi.
Chi recandosi in montagna non si è sentito affascinato dalla grandiosità dei paesaggi, dal silenzio profondo che permette al pensiero di librarsi alto sui problemi quotidiani e di avvicinarsi all’Essenza della vita stessa?
Chi, di fronte a tanta bellezza, non è stato assalito da atavici ricordi e non si è visto scorrere davanti agli occhi tutta la storia passata, le genti di razza e cultura diverse che transitarono per quei valichi, si scontrarono, fondarono villaggi, innalzarono monumenti ai loro dèi?
Da sempre l’uomo si è sentito annullare e nello stesso tempo elevare di fronte alle alte vette, tanto che queste costituirono per lui i primi altari, i primi templi naturali.
Presso tutti i popoli, le montagne furono considerate quali dimore delle varie divinità. In Cina è sulla cima di una montagna che gli dèi crearono la coppia originaria; in India furono divinizzati i monti Kailasa e Meru, dove si troverebbero, secondo la leggenda i meravigliosi palazzi di Indra, Siva, Visnù e Brahama; in Giappone sul mitico Fuji-Yama regna la dea SengenSama. Nell’antico Egitto si adorava una collina artificiale come
montagna originaria e tomba di Osiride, mentre nella Grecia classica la dimora degli dèi era sul monte Olimpo (e secondariamente su molte altre vette: il Parnaso, l’Ida, l’Athos, ecc.) e in Italia, come scritto nelle tavole Eugubine, fu il Vesuvio ad essere ritenuto sacro.
Questi naturalmente non sono che alcuni esempi, l’elenco in realtà potrebbe essere interminabile.
Anche nel nord dell’Italia, quando ancora le pianure piemontesi presentavano vaste maremme (residuo di un antichissimo mare interno che si ritirò poi verso l’Adriatico) e le popolazioni dei Celti, prima, e dei Liguri, poi (anche questi comunque di stirpe celtica), si stanziarono per le nostre valli, le montagne costituirono il primo naturale luogo di culto.
Su per le valli alpine o appennine comparvero in quel periodo (3000-2000 a.C.) le immagini simboliche di un dio di pietra che i Liguri chiamarono Penn o Pennin.
Questo, probabilmente già un rimaneggiamento di una divinità celtica autoctona preesistente, è ricordato pure da Tito Livio e veniva adorato sulle vette più alte in forma di uno scheggione di roccia più o meno lavorato o, talvolta, di un semplice ammassamento di pietre.
Il vocabolo Penn significa letteralmente cima, sommità, vertice (così come alp vuoi dire alto, spiccato); i romani ne latinizzarono il nome in Penninus e Servio e Catone ne parlano addirittura come di una divinità femminile: Pennina Dea.
Ancora oggi i nomi di molte montagne contengono la radice celtica da cui derivarono, basti pensare alle Alpi Pennine, agli Appennini stessi, ai monti Pennino, Penna, Penice, Pentema, e girovagando per i nostri monti è persino ancora possibile rinvenire alcune originarie raffigurazioni dell’antico dio.

Una di queste raffigurazioni abbiamo avuto modo di individuarla in provincia di Savona, sul rialto di un monte in Vai di Pia, nell’entroterra finalese, lungo l’antica via romana, la «Via Julia Augusta». E un masso che mostra, come si può ancora vedere nonostante il tempo lo abbia non poco consunto, chiare fattezze umane. Trovarglisi di fronte provoca, a chi «sente» il richiamo del passato, una strana sensazione, quasi che con il suo sguardo, eternamente puntato verso il nord, questa statua di roccia volesse indicarci qualcosa, forse un messaggio rivolto a noi dai suoi antichi artefici...Un altro strano macigno si trova nella valle del Tanaro, sul monte Grechiolo, nei pressi di Taro de’ Muti. La leggenda popolare ce lo tramanda come un antichissimo altare. Anche a Varazze, in località Salice, un monolito di forma approssimativamente cilindrica (alto metri 2,20 e con una circonferenza alla base di 4 metri) chiamato in dialetto la «munega», in quanto assomiglia ad una monaca avvolta nel suo mantello, potrebbe secondo noi annoverarsi tra le raffigurazioni di Penn. In Piemonte, nella valle Susa, presso Mompantero (che nei suo nome conserva forse un ricordo del dio dei Celti) troviamo la «roccia del diavolo», una enorme roccia scolpita che raffigura un uomo. Dal punto in cui è possibile vederlo pare, ad occhio nudo, di grandezza naturale di un uomo, con le mani sul petto, il ginocchio avanzato e avente sulla testa due raggi o corna. Alcuni ricercatori hanno avanzato in passato l’ipotesi che si tratti di Mercurio, altri invece pensano che sia una rappresentazione di Pane, ridente. Altri, infine, credono si tratti proprio del nostro Penn. Sul piccolo San Bernardo, poi, il simulacro di questo dio si innalza fin dalle più remote età: una grande colonna di gneiss, su cui, si dice, era posto un tempo un grosso carbonchio detto «occhio di Pennino», a riprova che in origine dovette essere un dio solare (così come in Egitto si rappresentava il Sole con l’«occhio di Osiride»).Vai la pena di ricordare a questo punto che sulla strada che conduce al colle, non molto lontano da La Thuile, sono ancora chiaramente visibili i resti di un cromlech, detto dal popolo «cerchio di Annibale», ma chiaramente risalente al periodo celtico (circa 4000 a.C.) formato originariamente da 46 pietre disposte lungo un’ellisse di asse maggiore di 84 metri e asse minore di 72 metri, distanti tra loro 3 metri.Questo monumento neolitico stava in stretto rapporto con la primitiva religione celtica che sintetizzava il culto per gli alberi, l’acqua e le pietre ed era probabilmente legato, così come la raffigurazione di Penn, a un culto di dèi solari. Ricordiamo, infine, che il Lago dei Gran San Bernardo era chiamato, dai romani, LacusPenus.Ci si potrà domandare per quale motivo la storia e la mitologia, nulla, o quasi nulla, ci hanno tramandato di questo antico dio. Ebbene i motivi sono molti. Innanzi tutto furono i romani che, una volta debellati i Salassi, incominciarono con il sostituire all’originale culto quello di Giove, detto Pennino, e con l’abbattere le rappresentazioni del dio celtico per rimpiazzarle con statue della loro nuova divinità.Quel poco che riuscì a salvarsi da questa prima distruzione venne definitivamente sepolto con l’avvento del cristianesimo, specialmente tra il VI e il IX secolo, quando Childeberto, Chilperico, Carlo Magno e altri sovrani ordinarono agli abitanti delle campagne, minacciando pene gravissime, di distruggere i simulacri di pietra, le pietre grezze, i dolmen e i menhir ai quali si volgeva qualche culto. Gli unici frammenti giunti sino a noi devono la loro fortuna o alla protezione del popolo, o all’inaccessibilità del luogo in cui si trovavano o, assai più spesso, perché si inventò su di essi una leggenda cristiana o vi venne incisa una croce sopra. A causa di questi vari momenti storici Penn scomparve come figura di divinità per rimanere, come abbiamo visto, come radice toponomastica e come mitico personaggio di un passato, ormai, per la quasi totalità dimenticato.

Da “ Gli Arcani”, novembre 1981, pagine 43-44

sabato 8 novembre 2008

Vincenzo Monti - Sermone sulla mitologia

Vincenzo Monti - Sermone sulla mitologia
Vincenzo Monti - Sermone sulla mitologia

Vincenzo Monti Sermone sulla mitologia Audace scuola boreal, dannando tutti a morte gli Dei, che di leggiadre fantasie già fiorîr le carte argive e le latine, di spaventi ha pieno delle Muse il bel regno. Arco e faretra toglie ad Amore, ad Imeneo la face, il cinto a Citerea. Le Grazie anch'esse, senza il cui riso nulla cosa è bella, anco le Grazie al tribunal citate de' novelli maestri alto seduti cesser proscritte e fuggitive il campo ai Lemuri e alle streghe. In tenebrose nebbie soffiate dal gelato Arturo si cangia (orrendo a dirsi!) il bel zaffiro dell'italico cielo; in procellosi venti e bufere le sue molli aurette; i lieti allori dell'aonie rive in funebri cipressi; in pianto il riso; e il tetro solo, il solo tetro è bello. E tu fra tanta, ohimè! strage di Numi e tanta morte d'ogni allegra idea, tu del Ligure Olimpo astro diletto, Antonietta, a cantar nozze m'inviti? E vuoi che al figlio tuo, fior de' garzoni, di rose còlte in Elicona io sparga il talamo beato? Oh me meschino! Spenti gli Dei che del piacere ai dolci fonti i mortali conducean, velando di lusinghieri adombramenti il vero, spento lo stesso re de' carmi Apollo, chi voce mi darà, lena e pensieri al subbietto gentil convenienti? Forse l'austero Genio inspiratore delle nordiche nenie? Ohimè! che nato sotto povero Sole, e fra i ruggiti de' turbini nudrito, ei sol di fosche idee si pasce, e le ridenti abborre, e abitar gode ne' sepolcri, e tutte in lugubre color pinger le cose. Chiedi a costui di lieti fiori un serto, onde alla Sposa delle Grazie alunna fregiarne il crin: che ti darà? Secondo sua qualitade natural, null'altro che fior tra i dumi del dolor cresciuti Tempo già fu, che, dilettando, i prischi dell'apollineo culto archimandriti di quanti la Natura in cielo e in terra e nell'aria e nel mar produce effetti, tanti Numi crearo: onde per tutta la celeste materia e la terrestre uno spirto, una mente, una divina fiamma scorrea, che l'alma era del mondo. Tutto avea vita allor, tutto animava la bell'arte de' vati. Ora il bel regno ideal cadde al fondo. Entro la buccia di quella pianta palpitava il petto d'una saltante Driade; e quel duro artico Genio destruttor l'uccise. Quella limpida fonte uscìa dell'urna d'un'innocente Naiade; ed, infranta l'urna, il crudele a questa ancor diè morte. Garzon superbo e di sé stesso amante era quel fior; quell'altro al Sol converso, una ninfa, a cui nocque esser gelosa. Il canto che alla queta ombra notturna ti vien sì dolce da quel bosco al core, era il lamento di regal donzella da re tiranno indegnamente offesa. Quel lauro onor de' forti e de' poeti, quella canna che fischia, e quella scorza che ne' boschi sabei lagrime suda, nella sacra di Pindo alta favella ebbero un giorno e sentimento e vita. Or d'aspro gelo aquilonar percossa Dafne morì; ne' calami palustri più non geme Siringa; ed in quel tronco cessò di Mirra l'odoroso pianto. Ov'è l'aureo tuo carro, o maestoso portator della luce, occhio del Mondo? Ove l'Ore danzanti? ove i destrieri fiamme spiranti dalle nari? Ahi misero! In un immenso, inanimato, immobile globo di foco ti cangiãr le nuove poetiche dottrine, alto gridando: - Fine ai sogni e alle fole, e regni il Vero. Magnifico parlar! degno del senno che della Stoa dettò l'irte dottrine, ma non del senno che cantò d'Achille l'ira, e fu prima fantasia del Mondo. Senza portento, senza meraviglia nulla è l'arte de' carmi, e mal s'accorda la meraviglia ed il portento al nudo arido Vero che de' vati è tomba. Il mar che regno in prima era d'un Dio scotitor della terra, e dell'irate procelle correttore, il mar soggiorno di tanti Divi al navigante amici e rallegranti al suon di tube e conche il gran padre Oceàno ed Amfitrite, che divenne per voi? Un pauroso di sozzi mostri abisso. Orche deformi cacciãr di nido di Nereo le figlie, ed enormi balene al vostro sguardo fur più belle che Dori e Galatea. Quel Nettuno che rapido da Samo move tre passi, e al quarto è giunto in Ega; quel Giove che al chinar del sopracciglio tremar fa il Mondo, e allor ch'alza lo scettro mugge il tuono al suo piede, e la trisulca folgor s'infiamma di partir bramosa; quel Pluto che, al fragor della battaglia fra gl'Immortali, dal suo ferreo trono balza atterrito, squarciata temendo sul suo capo la Terra e fra i sepolti intromessa la luce, eran pensieri che del sublime un dì tenean la cima. Or che giacquer Nettuno e Giove e Pluto dal vostro senno fulminati, ei sono nomi e concetti di superbo riso, perché il Ver non v'impresse il suo sigillo, e passò la stagion delle pompose menzogne achee. Di fé quindi più degna cosa vi torna il comparir d'orrendo spettro sul dorso di corsier morello venuto a via portar nel pianto eterno disperata d'amor cieca donzella, che, abbracciar si credendo il suo diletto, stringe uno scheltro spaventoso, armato d'un oriuolo a polve e d'una ronca; mentre a raggio di luna oscene larve danzano a tondo, e orribilmente urlando gridano: pazienza, pazienza. Ombra del grande Ettorre, ombra del caro d'Achille amico, fuggite, fuggite, e povere d'orror cedete il loco ai romantici spettri. Ecco, ecco il vero mirabile dell'arte, ecco il sublime. Di gentil poesia fonte perenne (a chi saggio v'attigne), veneranda mitica Dea! qual nuovo error sospinge oggi le menti a impoverir del Bello dall'idea partorito, e in te sì vivo, la delfica favella? E qual bizzarro consiglio di Maron chiude e d'Omero a te la scuola, e ti consente poi libera entrar d'Apelle e di Lisippo nell'officina? Non è forse ingiusto proponimento, all'arte, che sovrana con eletto parlar sculpe e colora, negar lo dritto delle sue sorelle? Dunque di Psiche la beltade, o quella che mise Troia in pianto ed in faville, in muta tela o in freddo marmo espressa, sarà degli occhi incanto e meraviglia; e se loquela e affetti e moto e vita avrà ne' carmi, volgerassi in mostro? Ah! riedi al primo officio, o bella Diva, riedi, e sicura in tua ragion col dolce delle tue vaghe fantasie l'amaro tempra dell'aspra Verità. Nol vedi? Essa medesma, tua nemica in vista, ma in segreto congiunta, a sé t'invita: ché non osando timida ai profani tutta nuda mostrarsi, il trasparente mistico vel di tue figure implora, onde mezzo nascosa e mezzo aperta, come rosa che al raggio mattutino vereconda si schiude, in più desio pungere i cuori ed allettar le menti. Vien, ché tutta per te fatta più viva ti chiama la Natura. I laghi, i fiumi, le foreste, le valli, i prati, i monti, e le viti e le spiche e i fiori e l'erbe e le rugiade e tutte alfin le cose (da che fur morti i Numi, onde ciascuna avea nel nostro immaginar vaghezza ed anima e potenza) a te dolenti alzan la voce e chieggono vendetta. E la chiede dal ciel la luna e il sole e le stelle, non più rapite in giro armonioso, e per l'eterea volta carolanti, non più mosse da dive intelligenze, ma dannate al freno della legge che tira al centro i pesi: potente legge di Sofia, ma nulla ne' liberi d'Apollo immensi regni, ove il diletto è prima legge, e mille mondi il pensiero a suo voler si crea. Rendi dunque ad Amor l'arco e gli strali, rendi a Venere il cinto; ed essa il ceda a te, divina Antonietta, a cui (meglio che a Giuno nel meonio canto) altra volta l'avea già conceduto, quando, novella Venere, di tua folgorante beltà nel vago aprile d'amor l'alme rapisti, e mancò poco che lungo il mar di Giano a te devoti non fumassero altari e sacrifici. Tu, donna di virtù, che all'alto core fai pari andar la gentilezza, e sei dolce pensiero delle Muse, adopra tu quel magico cinto a porre in fuga le danzanti al lunar pallido raggio maliarde del Norte. Ed or che brilla nel tuo larario d'Imeneo la face, di Citerea le veci adempi, e desta ne' talami del figlio, allo splendore di quelle tede, gl'innocenti balli delle Grazie mai sempre a te compagne.

giovedì 24 aprile 2008

OSIRI (osiride)

OSIRI (osiride)
Osiride era venerato già in età predinastica nella cittaà di Zed nel delta del Nilo, che poi in suo onore cambiò nome in Per-Usirev che in età grecoromana suonava Busiri. Ivi esisteva anche una colonna sacra, forse un totem, che successivamente venne indentificato con Osiri. Ma in effetti Osiri era una divinità agricola, tanto vero che veniva raffigurato in aspetto umano mentre impugna il flagello e il pastorale. Dovendosi occupare di cose agricole, finiva per rappresentare da un lato anche la Luna, il Sole e il Nilo, e dall'altro la Terra stessa. In quest'ultima concezione era però fatale che diventasse anche il dio dei morti; in proposito cfr. Gheb, di cui per altro era figlio. Man mano che il culto di Ostri andava espandendosi, egli soppiantò gli dèi dei morti di altre necropoli, quali Chenti-Amentijev e Sokar (v.).
Il fatto che Osiri fosse una divinità dei morti, ma nello stesso tempo, come abbiamo visto, del Nilo, diede origine alla credenza nella risurrezione. Quando, dopo le alluvioni annuali, il Nilo ritorna nel suo alveo, lascia la terra fecondata che presto si ricopre di verde. Così le piante maturano presto per morire altrettanto presto sotto il sole torrido, salvo rinascere dopo la successiva alluvione del Nilo. Anche Osiri muore per rinascere. Il destino dell'Uomo somiglia a quello di Osiri; anche l'Uomo vive un poco su questa terra e poi muore per rinascere nell'altro mondo. Così in Osiri si identificano tutti i morti che, giunti nell'oltretomba, sono riusciti a superare un esame sulle loro azioni terrene.
Questo era un discorso comprensibile anche al povero fellah; non c'è quindi da meravigliarsi che il culto di Osiri diventasse popolare in tutto l'Egitto e che attorno alla sua persona si ricamassero leggende che infine formarono un intero ciclo.
Gheb, re delle due terre (cioè Egitto superiore e inferiore) aveva due figli — Osiri e Seth — e due fìglie — Iside e Netti —. Iside andò sposa a Osiri, Nefti a Seth. Gheb divise il suo regno tra i due fratelli: a Osiri toccò l'Egitto inferiore, Seth divenne rè dell'Egitto superiore. Osiri era un sovrano di eccelse qualità, tanto da suscitare l'invidia del fratello Seth che cercò di ucciderlo. Ma la vigile Iside sventò tutti gli attentati alla vita del consorte. Ma prova e riprova, un giorno Seth riuscì nel suo intento, uccise Osiri e ne gettò la salma nel Nilo. Iside e Nefti, piangendone la morte, cercarono la salma affannosamente lungo le rive del Nilo, e quando finalmente l'ebbero trovata, la seppellirono di nascosto. Ma l'odio di Seth era di quelli che vanno anche oltre la tomba; si diede a sua volta a cercare, scoprì infine la tomba segreta e ne riportò alla luce il cadavere di Osiri. Lo tagliò a pezzi che sparpagliò per tutto l'Egitto, seppellendone uno in ogni regione. Disperate, Iside e Netti chiesero pietà a Ra che mandò in loro aiuto Anubi. Pazientemente i tre vagarono per tutto il paese alla ricerca di ogni singolo pezzo, e quando li ebbero trovati tutti, Anubi ricompose il corpo di Osiri e l'imbalsamò. Compiuta l'opera, Iside, trasformatasi in colomba, si pose sulla mummia di Osiri e ne restò incinta. Per sfuggire all'ira di Seth, Iside vagò per l'Egitto finché non trovò un rifugio fra gli alti papiri delle paludi dell'Egitto inferiore, dove partorì Horus. Nelle scene della vita quotidiana della prima infanzia di Horus si rivela tutta la semplicità dell'anima egizia. Così si narra che un giorno Horus, curioso e incosciente come tutti i bambini, approfittò di una momentanea assenza della mamma, sgattaiolò di casa, si diede a prendere rane e serpenti e ne inghiottì qualcuno. La conseguenza fu — come per un comune bambino mortale — un terribile mal di pancia. Accorse Iside spaventata e non riuscendo a calmare i dolori del bambino, implorò Ra che con la sua forza magica fece infine passare il mal di pancia del piccolo Horus. Ma non basta: ancora una volta Iside lasciò il piccolo Horus senza sorveglianza, e andò a finire che il bambino cadde in acqua e annegò. Il dio Suchos lo ripescò e Ra lo rianimò, non senza aver dato a Iside una tremenda sgridata per la sua leggerezza.
Quando Horus si fu fatto uomo, decise di vendicare suo padre. Si scontrò con Seth in una furiosa lotta dalla quale entrambi uscirono malconci; Horus ci aveva rimesso un occhio. Intervenne Thot. costringendo i due contendenti a dirimere la loro lite davanti al tribunale degli dèi. La sentenza stabilì essere fondate le ragioni di Horus e obbligò Seth a restituirgli l'occhio. Ma Horus non se lo rimise, bensì lo offrì alla mummia di suo padre Ostri, e a cagion di questo sacrificio dettato dall'amor filiale, Io spirito della vita ritornò in Osiri.
A Horus venne tutta l'eredità di Gheb, mentre Osiri diventò rè delle anime nel regno occidentale.
Spogliata di tutti gli aspetti mitologici, questa leggenda probabilmente non rispecchia altro che una lontana eco delle lotte fra l'Egitto Inferiore e l'Egitto Superiore svoltesi nell'età predinastica, e siccome il vae victis non è un'invenzione di Brenno, il soccombente, nel nostro caso Seth, s'identifica col concetto del male, e il vincitore, cioè Horus, con quello del bene.
A. Morelli, Dei e miti,

Il Dio Osiride

Osiride
Nel corso dei secoli, la personalità di Osiride si è arricchita progressivamente, diventando oltremodo complessa, restando però sempre logica nel suo sviluppo, e particolarmente vicina alla sensibilità di popoli che vivevano una religione di salvezza fondata su di un uomo-dio che aveva conosciuto una «passione» tra gli altri uomini. Osiride compare a Busiris , ove succede al dio pastore Andjty, di cui prende tutti gli attributi. Pare una ipotesi seducente quella che vede in questa figura un personaggio storico, forse il primo che, durante l'oscuro periodo predinastico, avrebbe unificato i clans del Delta o forse anche l'intero Egitto. La più antica versione della sua gesta si trova nei Testi* delle Piramidi;Osiride viene allora integrato all'Enneade heliopolitana e presentato come figlio di Geb e di Nut , con Iside , Seth * e Neph-ys. Secondo questi testi, Seth viene aiutato da Thot nel far perire, senza dubbio allo scopo di usurpare il trono, Osiride succeduto al padre Geb.
Iside e Nephtys cercano il cadavere del fratello levando forti lamentazioni, e quando esse l'hanno ritrovato, gli altri dèi gli rendono la vita. Alcune parti della leggenda compaiono in un'epoca più tarda: è questo il caso della mummificazione del corpo di Osiride ad opera di Anubi, di cui è detto in uno dei Testi dei sarcofagi (Medio Regno); tuttavia, tenuto conto del fatto che i Testi delle Piramidi non pretendono di riportare la leggenda nel suo insieme, ma vi fanno sol' tanto allusioni a diversi propositi; pare che numerosi elementi a noi noti soltanto nella versione del mito riportata da Plutarco, nel suo De Iside et Osiride, debbano esser fatti risalire a un periodo molto antico. In questo testo, Geb e Nut hanno quattro figli, a cui si aggiunge Haroeris (o Horus il Primogenito); questi cinque figli nascono l'uno dopo l'altro nei cinque giorni epagomeni (v. calendario) ; Osiride succede al padre Geb e regna al fianco della sua sposa e sorella Iside; egli dona agli uomini la conoscenza dell'agricoltura e le pratiche religiose. Geloso di questo regno benefico, Seth, con l'aiuto di settantadue congiurati, rinchiude Osiride in un cofano nel corso di un banchetto e lo getta nel Nilo.
Iside parte allora alla ricerca di questa bara che le onde hanno trasportato fino alle spiagge fenicie di Byblos e su cui cresce una pianta di erica; il re di Byblos, vista la bellezza dell'albero cresciuto sul corpo di Osiride, ne fa tagliare un pilastro; Iside, che qui giunge, si fa donare la colonna e la bara, che porta con sé nelle paludi di Chemnis, presso Buto , ove ella genera Horus. Seth, avuta notizia dell'accaduto, approfitta di un'assenza di Iside per impadronirsi del cofano e spezzare il corpo di Osiride in quattordici parti che poi disperde attraverso tutto l'Egitto. Ma Iside ricerca tutti i pezzi del corpo dello sposo e li fa seppellire sul posto: su ognuna di queste sepolture vengono eretti dei santuari osiriani; e proprio in seguito a questo fatto tante città d'Egitto vantarono di Possedere la tomba del dio. Dopo questi fatti, Osiride rimane nel regno dei Morti, di cui diviene il sovrano. Secondo un'altra versione invece, Thot, Anubis, Iside e Nephtys riuniscono i brani del corpo di Osiride e ne fanno un corpo immortale attraverso la mummificazione.
Quella narrata è la leggenda che si è costituita. Osiride è un sovrano morto e divinizzato — la concezione dell'essenza divina della monarchia è antica come l'istituzione stessa — qui però è intervenuto un fattore capitale: questo sovrano si distingue per la sua bontà, e la sua morte violenta, che forma un contrasto, è stato il punto di partenza della sua leggenda e della sua fortuna. Gardiner ha fortemente sottolineato questa relazione di Osiride con la monarchia egizia. Di fatto il dio è sempre rappresentato come sovrano dell'Egitto intero, benché porti soltanto la corona bianca del sud (il che può parere paradossale, ma forse tende a sottolineare il fatto che questo sovrano del nord era anche il signore del sud). Egli viene sempre rappresentato come il sovrano morto che diventa Osiride, mentre il suo successore è l'incarnazione di Horus, figlio di Osiride.
Le feste di Osiride celebrate alla fine dell'inondazione prendono solo secondariamente un carattere agrario; si tratta dapprima, e prima di tutto, della celebrazione della resurrezione del sovrano defunto in suo figlio; questa festa, «dramma della monarchia», rinnova la storia mistica di Osiride e di Horus. Gli altri caratteri religiosi del culto di Osiride trovano le proprie radici in questa leggenda.
Osiride è in relazione con l'acqua del Nilo, alla quale il suo corpo attribuisce la forza fecondatrice; in alcune varianti della leggenda, in luogo di discendere il Nilo in un cofano, egli viene annegato direttamente nel fiume; d'altra parte però, quando Seth lo fa a brani, il suo corpo non rimane integro poiché un pesce, l'ossirinco, lo danneggia nelle parti destinate alla riproduzione, e per questo nel distretto di Ossirinco, questo pesce viene assimilato a Seth. Dio fecondatore, Osiride è anche un dio della vegetazione; come questa, egli muore al momento dell'inondazione, per rinascere in primavera, dopo esser rimasto sotto terra, come il grano seminato. Questo aspetto aveva un particolare risalto presso gli Egizi, i quali, al momento delle feste di Osiride, che avevano luogo prima della semina, modellavano con argilla un corpo del dio, in cui ponevano semi che poi germogliavano, coprendo la statuetta di vegetazione; nelle tombe sono stati ritrovati diversi esemplari di queste statuette.
D'altra parte, la speculazione heliopolitana ne fece un dio cosmico; questa concezione si può spiegare se si ammette che dall'epoca predinastica il sovrano defunto fosse assimilato ad Osiride, e se si pensa che fu necessario far entrare questa concezione nel quadro del destino solare del sovrano: quest'ultimo raggiunge Ra nel cielo mentre Osiride nello stesso tempo riveste il carattere celeste del defunto sovrano. Alla fine dell'Antico Regno, Osiride fu anche assimilato al Dio Grande (dio celeste), come lo era stato prima di lui Horus. Questa concezione è collegata inoltre a quella di Osiride dio dei Morti. Il sovrano morto continua a regnare nel mondo inferiore, che è un'immagine del mondo terrestre, come Osiride morto regna in questo mondo « antipodico». D'altra parte, poiché il sole rischiara il mondo dei vivi, mentre la luna illumina il mondo dei morti, Osiride fu identificato alla luna (Aah). Certamente questa concezione del sovrano che continuava a vivere e a regnare sull'aldilà fece sì che alla fine Osiride diventasse un dio dei morti; a questo titolo, egli assimilò le divinità funerarie delle necropoli egizie e più particolarmente Khentamentiu, « il signore (colui che presiede) degli Occidentali», ad Abido, presso This, sede delle prime dinastie tinite. Questo carattere ctonico trionfa soprattutto a partire dal Medio Regno, allorché la dottrina Osiriana di salvezza (sopravvivenza dell'anima concessa a tutti gli uomini) trionfò della dottrina solare e monarchica dell'Antico Regno.
Inoltre il carattere di Osiride, dio del grano sepolto sotto la terra durante la germinazione, contribuì non poco a consolidarne, per analogia, il carattere ctonico.
Nei Bassi Tempi, quando le dottrine di salvazione fiorite in Grecia e nel vicino Oriente invasero il mondo, Osiride conservò esclusivamente questo carattere di divinità salvatrice e ctonica.
Guy e m. f. Rachet, "dizionario della civiltà egizia" - 1972

Osiride

Osiride
Una delle divinità principali, più complesse e più famose della mitologia egizia. Da questa, passò anche nella mitologia greca, per via di successive identificazioni e trasposizioni. — Adorato già, a quanto pare, nei tempi preistorici, Osiride fu, prima di Amon Ra, divinità suprema degli Egizi, e può essere considerato come una specie di eroe civilizzatore, o come un simbolo luminoso dell'umanità che esce dall'oscura barbarie e stabilisce nel mondo Perdine e la giustizia. — Secondo il mito che Plutarco riferisce, Osiride, figlio del Ciclo e della Terra, fu in origine un benefico e generoso re d'Egitto, fratello di Set, dio locale di Ombos. Ebbe per moglie Iside. Set (il Tifone dei Greci) personificava il principio del male e del disordine ed era nemico implacabile di Osiride perché sua moglie Nefti, sedotta dalla bellezza del cognato, si era data a lui, dopo avere assunto l'aspetto d'Iside per non essere respinta, ed era divenuta madre di Anubi. Venuto a conoscenza di questo fatto, Set ideò e realizzò una diabolica vendetta. Col pretesto di onorare Osiride, diede un banchetto, alla fine del quale fece portare una cassa riccamente ornata e la mostrò ai commensali dicendo che l'avrebbe donata a quello, fra loro, che l'avesse empita esattamente della propria persona. Appena Osiride si fu steso nella cassa, Set e i convitati, suoi complici, inchiodarono il coperchio, portarono la cassa in riva al Nilo e la gettarono nel fiume. Questo la portò fino al Delta, dove la depose in un folto canneto nelle vicinanze di Buto. — Iside, messasi ansiosamente in cerca del cadavere del marito per dargli sepoltura, lo trovò appunto in quel luogo, e con Netti, moglie di Set, rimasta fedele alla memoria di Osiride, cominciò la veglia funebre. Ma una sera Set, mentre cacciava al chiaro di luna, vide il cadavere, dal quale le due dee si erano allontanate per un momento, e lo tagliò in molti pezzi che sparse attraverso quella regione paludosa. Iside poi, aiutata da Netti e da Anubi, raccolse ad uno ad uno quei pezzi dispersi, e Anubi, con mezzi magici, riuscì a dare una nuova vita ad Osiride, non sulla terra, però, ma nel Regno dei morti. Nondimeno il dio potè generare Horus, che Iside nutrì ed allevò nascostamente nelle paludi del Delta. Osiride, intanto, regnava ormai sul Regno dei morti. Horus, divenuto adulto, raccolse i partigiani di suo padre, sconfisse e scacciò Set (Tifone) e fondò in Egitto il regno dei Faraoni. — Tale il mito primitivo di Osiride, nel quale erano efficacemente drammatizzati i più profondi sentimenti degli uomini. I credenti vi attingevano la speranza di rivivere dopo la morte, in un altro mondo, sotto un re giusto e benigno. — Lo stesso mito ebbe poi numerosi sviluppi e molte varianti; ma ad Horus rimase sempre il carattere di continuatore, sulla terra, dell'opera benefica di Osiride, e a Set quello di divinità malefica. — Molte interpretazioni di questa favola sono astronomiche. Osiride è il sole che scende nelle tenebre notturne, Horus è il sole diurno, Iside è la Luna, sorella e sposa del Sole. In altre interpretazioni, la lotta fra Osiride e Set simboleggia quella che si svolse fra i primitivi indigeni egizi e gl'invasori del Paese. - Nel regno dei morti immaginato dagli Egizi, Osiride è giudice supremo delle anime.
Decio Cinti - Dizionario di Mitologia.

Formula per permettere la trasformazione in un falco d'oro.

Formula per permettere la trasformazione in un falco d'oro.

Recitazione di... Nu, assolto: Io sono sorto all'alba, io sono sorto all'alba come un grande falco d'oro che esce fuori dal suo uovo. lo ho volato e mi sono posato come un falco di quattro cubiti, il cui dorso e le cui ali sono in verde feldspato dell'Alto Egitto, lo sono uscito fuori dalla cabina della barca Mesektet, e il mio cuore è stato portato a me dalla montagna orientale. Io mi sono posato nella barca Manjet, e gli dèi dell'età primeva sono stati portati a me, e si sono prosternati davanti a me e mi hanno elevato preghiere. Io sono sorto all'alba, io mi sono composto come un bel falco d'oro con la testa di fenice, davanti a cui entra ogni giorno Ra per ascoltare le sue parole. Io siedo fra quegli dèi, figli primogeniti di Nut. Il Campo delle Offerte di Cibo è stato stabilito per me ed io mangio là, io là divento uno spirito, io là godo dell'abbondanza secondo il desiderio del mio cuore. Il dio grano mi ha dato la mia gola, e io ho l'imperio sulle parti della mia testa.

Papiro di Nu - formula 77

Formula per Osidide

O Osiride, sommo fra gli dèi, più glorioso di colui che lo ha fatto, puoi tu osservare quel che fa il Figlio del Re e Sacerdote Sem Khaemuas! Egli ti ha permesso di divenire grande di forma, egli vive attraverso te, o dio, e tu vivi attraverso lui. Tu puoi nominare lui come tuo unico tesoriere! Egli è un protettore che bada alla Necropoli, colui che conosce la strada per passare ... Egli apre la bocca dello stesso Seker; egli ha creato la magia nel grembo di Nut, egli ha aperto la Placenta Reale... egli è colui che ha afferrato le armi dei tuoi nemici ogni giorno. Tu puoi apparire gloriosamente in (o attraverso?) lui come signore del nomo di Abido, a seconda che tu gli dia vita, saldezza, benessere e durata nel tuo tempio, perché egli è tuo figlio e il tuo campione.

Incisione nel basamento della statua di Khaemuas nel British Museum.

Adorazione di Ra

Adorazione di Ra da parte dello scriba reale e comandante militare Nekht. Egli dice: Omaggio a te, che sei splendente e possente, Atum-Herakhty! Quando sorgi all'alba all'orizzonte del cielo, si leva per tè la preghiera sulle labbra di tutte le genti. Tu sei divenuto bello e giovane come un disco nelle mani di tua madre Hathor, Sorgi in ogni luogo, il tuo cuore si apra per sempre! Gli dèi delle due Terre vengono a prostrarsi davanti a te, alzano lodi al tuo splendente avanzare. Tu sorgi all'alba all'orizzonte del cielo, tu illumini le due Terre con la malachite. Tu sei Ra-Herakhty, il giovane divino, l'erede dell'Eternità che genero se stesso e che partorì se stesso, Re di questa terra, signore della Tuat, capo dei distretti dell'Aldilà, che emerse dall'acqua, che emerse da Nun, che si innalzò e rese splendidi i suoi figli!
Dio vivente, signore d'amore! Tutte le genti vivono quando tu risplendi, sorgendo come Re degli dèi! Nut asperge il tuo volto, Maat ti abbraccia in ogni stagione, il tuo seguito gioisce di te, si prostrano a terra al tuo avanzare. O signore del cielo, signore della terra, re di Verità, signore dell'Eternità, dominatore dell'immortalità, sovrano di tutti gli dèi, dio vivente che hai fatto l'Eternità, che hai creato il cielo e che vi ti sei stabilito! I Nove giubilano per il tuo splendore, la terra è piena di gioia nel guardare i tuoi raggi, gli uomini escono rallegrandosi a guardare la tua bellezza ogni giorno. Tu veleggi nei cieli ogni giorno, tu ti rechi da tua madre Nut, tu traversi i Cieli ed e aperto il tuo cuore. Il lago di Testes è in pace, il serpente ribelle è caduto, le sue braccia sono in catene, il coltello ha reciso la sua colonna vertebrale.
Ra veleggia con una dolce brezza... Il Sud e il Nord ti trainano, l'Ovest e l'Est ti adorano, O essere primevo della terra, che partoristi te stesso! Iside e Nephthys ti riveriscono, ti incoronano su questa barca, le loro broccia sono dietro a te a tua protezione. Le anime dell'Est seguono te, le anime dell'Ovest giubilano in te, tu governi su tutti gli dèi, il tuo cuore si apre nel tuo sacrario. Il serpente criminale è stato dato alle fiamme, e il tuo cuore si è aperto per sempre quando tua madre Nut ti ha affidato a tuo padre Nun.

domenica 30 marzo 2008

Anigridi

Anigridi
(Mitologia Grec).
Ninfe che abitavano presso il fiume Anigro, nell’Elide. Avevano il potere di conferire proprietà terapeutiche alle acque del fiume, che erano state infettate dai Centauri, dopo che questi vi avevano lavato le ferite ricevute dalle frecce avvelenate di Eracle.

Ànnio o Ànio

Ànnio o Ànio
(Mitologia Greca).
Re di Delo e gran sacerdote di Apollo. Aveva quattro figlie alle quali Dioniso aveva accordato il potere di mutare in vino, biada e olio tutto ciò che toccavano, e, rac-conta OVIDIO Metamorfosi, XIII, 654-674):
quel dono le arricchiva. Ma quando ciò seppe l’Atride distruttore di Troia, strappò dal grembo del padre le figlie che malvolentieri lo seguirono, e comandò loro che nutrissero l’esercito greco con il dono celeste. Fugge ognuna dove può; due ncll’Eubea, le altre presso il fratello Andro. Il nemico le raggiunge e minaccia la guerra se non si restituiscono le fanciulle. La paura vince la pietà, e il fratello abbandona le sorelle, ma gli si può perdonare per il suo terrore: non c’erano né Enea né Ettore che potessero difendere Andro. Ormai le catene erano pronte per loro. Esse, alzando le braccia ancora libere al cielo: «Aiuto, padre Dioniso! >, dissero, e il benefattore concesse il suo aiuto, se può considerarsi aiuto l’uccidere in strana maniera. Non si è mai saputo come perdessero la forma umana, è nota sol-anto la loro grande sventura: presero le penne e divennero bianche colombe.

Angus

Angus
(Mitologia Geltica)
Per le prime popolazioni celtiche di origine danese che si stanziarono in Irlanda era il dio dell’amore, considerato figlio di Dagda e fratello di Brigit, dea della sapienza e della poesia.

Angltia

Angltia
(Mitologia Romana).
Divinità venerata dai Marsi, che la invocavano contro le malattie, poiché aveva insegnato loro l’uso delle erbe medicinali. Secondo alcuni, A. fu la prima ad estrarre il veleno dalle erbe. Le erano sacri i serpenti di cui guariva le morsicature.

Annona

Annona
(Mitologia Romana).
Dea dell’abbondanza e degli approvvigionamenti, da non confondersi con la dea Abbondanza, in quanto A. presiedeva ad una sola stagione. Veniva rappresentata con delle spighe in mano.

Anshàr

Anshàr
(Mitologia Assira.).
Dio delmondo celeste e il principio generativo maschile mentre la sorella e moglie Kishar personificava il mondo terrestre e il principio generativo femminile. Queste due divinità che costituivano la coppia primordiale della mitologia caldeo-assira avevano per genitori i favolosi serpenti Lakhmu e Lakhamu e generarono Amu.

Antiloco

Antiloco
(Mitologia Greca).
Figlio di Nestore e di Euri-dice, era amico affezionatissimo di Achille, oltreché valoroso guerriero ed atleta. Fu ucciso da Memnone nell’eroico tentativo di salvare il padre. Ebbe sepoltura sotto lo stesso tumulo con Achille e Patroclo.
OMERO: Iliade, Iv, Xv, xvii, xvii, xxii.

Antigone

Antigone
(Mitologia Greca).
Figlia di Edipo e di Giocasta. Creatura dolcissima nella sua pietà filiale e nello spirito di sacrificio costantemente celebrato dal mito che di lei parla. Accompagnò il padre cieco e mendico fino a Colono e tornata poi con Ismene a Tebe, nonostante la proibizione di Creon-te, re di Tebe e suo zio, volle dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice.
Condannata per la sua disobbedienza ad essere sepolta viva preferi strangolarsi. Fu amata da Emone. Altri nar-rano che Creonte aveva ordinato ad Emone di eseguire la condanna a morte di A., ma il giovane, che l’amava da molto tempo, la fece nascondere presso alcuni pastori, ed in seguito ebbe da lei un figlio (Meone od Eone), il quale, cresciuto in età, si distinse nei pubblici giochi. In tale occasione Creonte rintracciò A. e la fece seppellire viva, ed Emone, per il dolore, si uccise sulla tomba di lei.
SOFOCLE: Antigone; Edipo a cotono; STAZIO: Tebaide, XII; SENECA: Le
Fenicie; L. ALEMANNI: Antigone; P. METASTASIO: Antigone; v. ALFIERI:
Antigone; Polinice; G. CARDUCCI: Odi barbare: Presso l’urna di Percy
Bysshe Shelley .

Antesterione

Antesterione.
Cosi si chiamava l’ottavo mese dell’anno attico: comprendeva il periodo che va dal 15 febbraio al 15 marzo.

Antestérie

Antestérie.
Feste ateniesi in onore di Dioniso e dei morti, che si celebravano nei giorni i 11, 12 e 13 del mese di Antesterione (febbraio-marzo). Nel primo giorno si aprivano le botti del vino; nel se-condo si faceva a gara a chi ne beveva di più, e il vincitore era incoronato di edera; il terzo giorno era dedicato a gite in campagna, e si esponevano pentole colme di legumi che dovevano servir di cibo alle anime dei defunti, le quali, secondo la credenza, vagavano quel giorno sulla terra. Durante il periodo delle A. erano i padroni a servire gli schiavi.

Antesforie.

Antesforie.
Feste che si celebravano in Sicilia in onore di Persefone all’inizio della primavera. Erano cosi chiamate per ricordare che la dea era stata rapita da Ades mentre era intenta a coglier fiori.

Antifate

Antifate
(Mitologia Greca).
Re dei Lestrigoni, giganti antropofagi di cui parla OMERO (Odissea, X). Divorò uno dei compagni di Ulisse e, con l’aiuto dei suoi sudditi, fece affondare molte navi della flotta dell’eroe, colpendole con enormi massi.

Anticlea

Anticlea
(Mitologia Greca).
Figlia di Autolico, moglie di Laerte e madre di Ulisse. Parecchi autori con-cordano però nell’affermare che padre di Ulisse fu Sisifo figlio di Eolo, il quale, adirato per i con-tinui furti di bestiame operati da Autolico, ne violentò la figlia mandandola sposa già incinta di Ulisse a Laerte. Secondo alcuni A. si uccise quando le pervenne la falsa notizia della morte del figlio;
secondo OMERO (Odissea, XI, 261-264) invece mori di dolore:
ma il desio di vederti, ma l’affanno
della tua lontananza, ma i gentili
modi e costumi tuoi, nobile Ulisse,
la vita un di si dolce hannomi tolta.

Anna Perenna

Anna Perenna
(Mitologia Romana).
Era considerata la dea che presiedeva al corso dell’anno, o, più propriamente, al perpetuo rinnovarsi dell’ anno. Non manca chi nell’espressione « ut annare perenna-reque commode liceat » (sia concesso di ben iniziare l’anno nuovo e meglio condurre a termine l’anno uscente), vuoi ritrovare l’origine del suo nome. La tradizione più comune la identifica con Anna, sorella di Didone, che dopo la tragica morte di questa, si rifugiò a Malta, presso il re Batto, per sfuggire al fratello Pigmalione. Nuovamente costretta a prendere il mare, naufragò sulle coste del Lazio dove, amorevolmente ospitata da Enea, suscitò la gelosia della moglie Lavinia. Didone, apparsale in sogno, la esortò ad abbandonare la casa ospitale, e al-lora, come dice OVIDIo (Fasti, III), si crede che il cornigero Numicio l’abbia rapita con le sue onde impetuose e l’abbia nascosta nei suoi antri.

Bibliografia:
Macrobio: Saturnali, I; METASTASIO: Didone abbandonata.

Antevorta

Antevorta
(Mitologia Romana).
Insieme con Postvorta, era ministra della dea Carmenta. Queste divinità venivano invocate dalle partorienti, con riferimento alle due principali posizioni con le quali si presenta il feto al momento della nascita. Era inoltre considerata la dea del passato, come Postvorta era quella dell’avvenire.

Anteros

Anteros
(Mitologia Greca).
Dio dell’amore reciproco, figlio di Ares e di Afrodite. Alcuni autori considerano A. il dio che si oppone agli amori contro natura, altri il vendicatore dell’amore disprezzato, altri infine il dio dell’amore volubile. Aveva altari in molte città della Grecia.

Amalivaca

Amalivaca
(Mitologia del sud America).
Divinità onorata dagli antichi abitanti del Venezuela quale protettrice delle messi.

Ama

Ama
(Mitoligia Giapponese).
Con questa parola i Giapponesi indicano la dimora degli dei celesti, simile geograficamente al Giappone, e un tempo unita alla terra mediante il ponte Ama no Hashidate, di cui gli dei si servivano per scendere sulla terra e risalire in cielo.

Altgirra

Altgirra
(Mitologia dell'Oceania).
Una delle principali divinità degli Arunta, popolazione dell’Australia centrale; dimora in cielo attorniato da un gran numero di mogli e di figli, che, come lui, hanno zampe di emù. La sua voce è il tuono.

Altea

Altea
(Mitologia Greca).
Figlia di Testio e di Euritemi, sposò Oeneo, re di Calidone, e da lui ebbe Tideo, Deianira e Meleagro. Quando quest’ultimo nacque, le Moirai posarono un tizzone acceso sul focolare di A., dicendo alla donna che il piccino sarebbe vissuto finché quel tizzone non si fosse consumato. La madre si affrettò a togliere dalle fiamme il pezzo di legno acceso, e, dopo averlo spento, lo custodi gelosamente. Meleagro era già giovinetto quando, un giorno, si dimenticò di sacrificare ad Artemide (altri dicono che sia stato il padre a trascurare il sacrificio) e la dea, indispettita, inviò in Calidonia un enorme e selvaggio cinghiale che prese a devastare il paese.
Alcuni principi greci, e fra questi Meleagro e i suoi zii materni, si accordarono per uccidere il cinghiale. Una giovinetta, Atalanta, fu la prima a colpire la fiera, e perciò a lei Meleagro offri la pelle e la testa del cinghiale ucciso. Di ciò si offesero i fratelli di A.; ne nacque una lite, e Meleagro, in un impeto di ira, uccise gli zii. A. quando conobbe la tragica fine dei suoi fratelli, fu colta da disperazione, e dopo una lunga e dolorosa lotta interna fra l’amore materno e il desiderio di vendicare i propri congiunti, gettò sul fuoco il fatale tizzone al quale era legato il destino del figlio, e lasciò che vi si consumasse. Più tardi A., lacerata dal rimorso, si uccise.

Altémene

Altémene
(Mitologia Greca).
Figlio di Catreo (o Cra-teo). Poiché l’oracolo aveva predetto al padre che sarebbe stato ucciso da uno dei suoi figli, A., unico maschio, dopo aver dato in moglie le proprie sorelle a principi stranieri, andò volontariamente in esilio per evitare che la predizione si avverasse. Ma Crateo, mal sopportando la lontananza del figlio, si imbarcò e parti alla sua ricerca. Nelle sue peregrinazioni approdò all’isola di Rodi, dove A. viveva, e qui fu ridotto in fin di vita da una freccia lanciatagli dal figlio che lo aveva scambiato per un nemico. Accortosi dell’errore, A., disperato, pregò gli dei affinché la terra gli si aprisse sotto i piedi e lo inghiottisse, e fu esaudito.

Amadriadi

Amadriadi
(Mitologia Greca).
Ninfe delle foreste e dei boschi, la cui esistenza era legata alla vita delle piante, particolarmente a quella delle querce, con le quali esse nascevano e con le quali morivano, a differenza della Driadi, che erano immortali. Grate a chi risparmiava le piante, punivano se-veramente chi invece le abbatteva e le danneg-giava, accorciando la loro vita.

Amaltea

Amaltea
(Mitologia Greca). Nome della capra che al-lattò Zeus, quando ancora infante venne dalla madre Rea affidato alle cure delle ninfe Melissa o Ida e Adrastea, per sottrarlo alla voracità di Crono. Secondo una leggenda A. sarebbe stata la ninfa che fece allattare il nume da una capra.
OVIDIO (Fasti, V, 115 e segg.) e con lui altri autori posteriori, danno invece la seguente inter-pretazione del mito:
Si racconta che la Naiade Amaltea, che l’Ida di Creta rese famosa, occultasse Zeus nelle selve. Amaltea possedeva una bella capra, madre di due capretti, la quale costituiva l’ornamento delle mandre di Ditte (città dell’isota di Greta) per le superbe corna ricurve all’indietro, e per le mammelle, degne della nutrice di Zeus. La superba bestia allattava il dio, ma spezzatosi un corno urtando contro un albero, perse metà della sua bellezza.
Il corno fu raccolto dalla ninfa che, ornatolo con fresche erbe e colmatolo di frutta, lo porse a Zeus. Questi, quando divenne re del cielo e occupò il trono paterno e nessuno era piò potente di lui, pose la nutrice fra le costellazioni e rese fecondo il suo corno che, ancora oggi, porta il nome di chi ne ebbe ornata la fronte.

Amano

Amano
(Mitologia Persiana).
Divinità venerata dagli antichi Persiani, che la identificavano con il Sole.
Nel suo tempio i sacerdoti dovevano sempre mantenere acceso il fuoco.

Alséidi

Alséidi
(Mitologia Greca).
Ninfe dei boschi, le quali talvolta spaventavano i viandanti che attraversavano le foreste (dal greco disos = bosco).

Ameshaspenta

Ameshaspenta
(Mitologia Persiana).
Cosi i Persiani chiamavano sei benevoli geni, o santi immortali, protettori degli uomini onesti e buoni, che risiedevano intorno al grande Ormuzd e l’aiutavano nella lotta contro Ahariman. Essi si chiama-vano Asha (la giustizia), Vohu Mana (il buon pen-siero), Kshatra (il dominio divino), Armaiti (l’umiltà), Haurvatat (la salute derivante da una coscienza tran-quilla) e Ameretat (l’immortalità). Ciascuno di essi era preposto ad un elemento del mondo naturale.

Amerdàd

Amerdàd
(Mitologia Persiana).
Nome che gli antichi Persiani davano ad un buon genio per merito del quale i frutti, creati dal dio Ormuzd, avevano sapore. Presiedeva alle acque.

Amente o Iment

Amente o Iment
(Mitologia Egizia).
Divinità del regno dell’oltretomba, contraddistinta nelle raffi-gurazioni da una piuma posta sul capo.
Il nome A., che significa occidentale, designa il "regno dei morti” che, secondo la credenza degli Egizi, il sole percorreva dopo il tramonto.

Amenophis

Amenophis
(Mitoligia Egiziana).
Cosi venne chiamato dai Greci Amenothes, figlio di Hapu, ministro di Amenophis III, che visse nel XIV secolo a. C. e che, per la sua saggezza, fu divinizzato.

Ame no Mi-naka-nushi (Signore del centro augusto del cielo)

Ame no Mi-naka-nushi (Signore del centro augusto del cielo).
Secondo la mitologia shintoista, una delle tre divinità primarie, nate dalla materia per generazione spontanea.

Ambròsia

Ambròsia
(Mitologia Greca).
Cibo degli dei, come il nettare ne era la bevanda; conservava loro l’immortalità e l’eterna giovinezza. Con tale nome OMERO chiama anche un unguento divino che aveva il potere di risanare le ferite. L’a. si trovava nell’orto delle Esperidi, ed erano le colombe a portarla in volo agli dei. Per alcuni autori, come ALCMANE e SAFFO, l’a. era bevanda e il nettare invece cibo.

Ambarvàlia

Ambarvàlia.
Feste che si celebravano a Roma nel mese di maggio in onore di Cerere, per ottenere la purificazione delle messi. Erano presiedute da un collegio di dodici sacerdoti chiamati Fra-telli Arvali e consistevano nel sacrificio di una pe-cora, di un maiale e di un toro (suovetaurilia) che, prima di essere immolati, venivano condotti dai contadini in processione per tre volte attorno ai confini dei loro campi.

Bibliografia:
CATONE: De Agricuttura; TIBULLO: Elegie, I; VIRGILIO: Georgiche, I.

Amàzzoni

Amàzzoni (dal greco dmazos = col seno reciso).
Popolo di donne guerriere originarie, secondo la leggenda, della Cappadocia, dove abitavano nella valle traversata dal fiume Termodonte. Si dice che esse si bruciassero o tagliassero la mammella destra per potere più agevolmente tirare con l’arco.
Non ammettevano fra loro gli uomini, e una sola volta all’anno si univano con i Gargareni; ma uccidevano (secondo Giustino) O storpiavano (secondo Diodoro) i figli maschi appena nati da queste unioni, allevando con gran cura solo le femmine. Alcuni autori narrano invece che presso le A. vivevano anche degli uomini, ma solo come schiavi.
Le A. soggiogarono la Crimea e la Circassia, si resero tributarie la Coichide, l’Iberia e l’Albania, spingendosi fin nella Scizia e parteciparono sotto la guida di Pentesilea, uccisa da Achille, alla guerra di Troia. Furono combattute da Bellero-fonte, da Teseo che ne sposò la regina Ippolita, e da Eracle che le distrusse quasi completamente.
Bibliografia.
DIODORO SICULO: Biblioteca; APOLL0D0RO: Biblioteea; SENECA:
Ercole sul monte Oeta; STA0I0: Tebaide, v e XII; IGIN0: Favole XIV e
CLXIII; GIUSTINO, Il; T. TASSO: Gerusalemme Liberata, XX.

Amatunte

Amatunte
Città dell’isola di Cipro consacrata ad Afrodite, che ebbe per tal motivo il soprannome di Amatusia. I suoi abitanti vennero tutti tramutati in tori dalla dea, sdegnata perché, contro la sua volontà, le venivano sacrificati gli stranieri.

Amaterasu Oho mi-kami (Grande augusta dea che risplende nel cielo)

Amaterasu Oho mi-kami
(Grande augusta dea che risplende nel cielo).
Dea del sole, è la divinità più importante della mitologia giapponese, ancor oggi venerata come antenata della famiglia imperiale. Si narra nel Kojiki, il più antico dei libri classici dello Shintoismo, compilato da YASUMARO nel 712 d. C., che la dea nacque dall’occhio sinistro di Izanagi. Fu lei ad insegnare agli uomini la colti-vazione del riso, l’allevamento del baco da seta e l’arte del tessere. Era sorella del cattivo Susa-nowo, il quale un giorno la spaventò talmente da indurla a nascondersi in una caverna, privando cosi gli uomini della sua benefica luce. Insensibile all’offerta di doni e alle invocazioni degli altri dei, la Grande dea del sole si rifiutava di uscire dalla grotta; allora la divina Uzume si mise a ballare sfrenatamente, suscitando le risa delle ottocento miriadi degli dei celesti. A tanto baccano A., sor-presa, socchiuse la porta e disse (Kojiki, XVI.):
"
... In seguito al mio ritiro, la distesa del cielo dovrebbe pur essere, a mio avviso, assolutamente al buio, e anche il paese di mezzo dei campi di giunco (il Giappone) dovrebbe trovarsi nell’oscurità. Come avviene dunque che Uzume sia cosi allegra e che ridano anche tutte le ottocento miriadi degli dei? ». Allora parlò Uzume e disse: «Noi godiamo e siamo allegri perché c’è una divinità che è ancora più splendente di Tua Altezza ». Mentr’essa parlava, Koyane e Futo-tama tesero lo specchio presentandolo reverentemente ad Amaterasu. Allora Amaterasu, sempre più meravigliata, venne a poco a poco fuori della porta, e guardò; in quel momento Tachikara-wo, che stava in agguato, la prese per la sua augusta mano e la trasse fuori . . . Essendo dunque Amaterasu uscita fuori, tornarono naturalmente ad essere illuminati la distesa dell’alto cielo e il paese di mezzo dei campi di giunco.
"
C'é chi vede in questa interpretazione mitica, la descrizione dell’eclissi solare e il riferimento ai riti agricoli dell’antichità.
In seguito la dea decise di assoggettare per il proprio figlio Oshi-ho-mi-mi il Giappone, gover-nato da Oho-Kuni-nushi. Ma il giovane dio non se la senti di guidare l’agitata umanità e rinunciò in favore del figlio Xinigi .

Amata

Amata
(Mitologia Romana).
Moglie di Latino, terzo re del Lazio; fu ostile ad Enea e favorevole a Turno, cui aveva promesso in moglie la propria figlia La-vinia. Alcuni autori narrano che essa uccise i suoi due figlioli quando seppe che, d’accordo col padre, avevano stabilito di far sposare Lavinia ad Enea. A. si impiccò prima di conoscere la disfatta e la morte di Turno. Dice VIRGILIO (Eneide, XII, 962-981):
In questo tempo un infortunio orrendo,
Timor, confusione e duolo accrebbe
Agli afflitti Latini, e pose in pianto
Il popoi tutto; e fu che la reina,
Visto da lunge incontro a la cittade
Venire i Teucri, e già le faci e l’armi
Volar per entro, e più nulla sentendo
O vedendo de’ Rutuli o di Turno,
Onde aita o speranza le venisse,
Si credé la meschina che già l’oste
Fosse sconfitto, e, ‘1 genero caduto,
Ogni cosa in ruina. E presa e vinta
Da subito dolore, alto gridando:
«Ah! ch’io la colpa — disse io la cagione,
Io l’origine son di tanto male».
E dopo molto affliggersi e dolersi,
Già furiosa e di morir disposta
Il petto aprissi, e la purpurea vesta
Si squarciò, si percosse, e dell’infame
Nodo il collo s’avvinse, e strangolossi.